Ho voluto fare un’analisi letteraria sul racconto di Ulisse e Penelope.
Innanzitutto fa riflettere che i più famosi e grandi poeti della storia, abbiano trattato di quest’argomento, e tra questi troviamo Omero, Dante e Gabriele D’annunzio.
Ciò fa desumere come tale episodio, essendo sentito da così illustri personaggi, oltre a non avere confini di tempo e non costituire un evento isolato e limitato ad un numero ristretto di persone, sia piuttosto molto comune al verificarsi nel corso della storia del genere umano e di alcune singole vite umane.
E’ inutile sottolineare come la separazione forzata di due amori corrisponda ad una tragedia, ad un tremendo destino che fa piangere e riflettere sul senso della vita non solo i diretti interessati, ma anche i poeti che ne raccontano il dramma, e tutti coloro che con animo sensibile si prestano ad ascoltarla con timorosa attenzione.
Ovviamente tale dramma, per la stessa drammaticità di cui è rivestito, implicitamente serba numerosi risvolti e sfaccettature che si prestano bene a varie letture ed interpretazioni.
Ed ogni poeta ha voluto vedere e far emergere nella storia di Ulisse e Penelope ciò che più gli stava a cuore in quel momento.
Iniziamo da Dante, dove l’eroe Ulisse è condannato nel cerchio tra i più profondi dell’inferno (inf. canto XXVI vv 76-142).
Il sommo poeta si distacca dalla conclusione omerica, per cui Ulisse non farà mai più ritorno ad Itaca, essendo l’eroe greco perito in mare durante un suo lungo viaggio incontro all’ignoto che è dentro ciascuno di noi.
E Dante esalta e nello stesso tempo condanna Ulisse per questo suo atteggiamento.
L’amore per la scoperta, per il nuovo, per il sapere, per la conoscenza, quindi l’amore per il lavoro che stava svolgendo Ulisse, è più forte del richiamo ai suoi doveri familiari.
Dirà, infatti, Ulisse a Dante “ .. né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ‘l debito amore lo qual dovea Penelope far lieta, vincer poter dentro da me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore ..”.
E quindi né la dolcezza di riabbracciare il figlio, né la pietà filiale verso il vecchio padre, né l’amore dovuto alla fedele Penelope, poterono vincere il forte desiderio che Ulisse aveva di svolgere il suo lavoro che era quello di andare per mare verso lidi lontani ad esplorare nuovi mondi ed a conoscere i diversi aspetti dei vizi e delle virtù dell’uomo.
Entrambi grandi valori, la famiglia ed il lavoro, come riuscire a conciliarli ?
Che cos’è più nobile, regnare e vivere ozioso in Itaca, coi parenti, la moglie ed il figlio, oppure impugnare le armi contro un mare d’affanni e combatterli fino a controllarli, fino ad arrivare in pratica a quel livello di conoscenza filosofica delle cose che portano l’uomo a “ non vivere come bruto, ma a seguir virtute e conoscenza ” quindi a seguire la filosofia, la scienza, e la ragione, anche se questo spesso comparta un allontanamento dal proprio focolare domestico?
Non è da dimenticare che anche Dante fu costretto a vagare di città in città essendo esiliato dalla sua natale e amata Firenze, e quindi tali sentimenti dovevano essere ben noti all’autore.
E non è neppure da sottovalutare l’ultimo posto in cui viene relegata la moglie, in ordine ai motivi importanti che avrebbero dovuto spingere il marito a tornare a casa, venendo dopo il figlio ed il vecchio padre.
Passiamo alla visione dannunziana dell’epopea omerica.
Nel racconto “Il rimpianto di Penelope”, tratto dall’opera “Maia”, c’è un’evidente svalutazione dell’orizzonte domestico.
Qui Penelope è vista ormai vecchia e cadente preoccuparsi soltanto della cura delle oche della sua piccola aia.
E mentre versa l’acqua e dà da mangiare ai suoi piccoli animali, la sentiamo lamentarsi della scelta sbagliata nell’aver sposato Ulisse.
Uomo e marito immeritevole.
Scrive D’Annunzio:
«..Rammaricavasi acerba la moglie incorrotta. E la casa di strepitosi chieditori sonante e di danze e conviti ripensava ella nel tristo suo petto. E improvviso a rancore pestifero cedea la più che ventenne costanza ! Fatta era l’alta reina simile a femmina ancella, poiché queste dicea parole: - Deh, avess’io scelto a marito il più ricco e valente dei Proci, accolto avessi il figlio di Polibo Eurimaco o il figlio d’Eupite Antinòo, e seco passata io fossi ad altra dimora, più tosto che attendere l’uomo cui solo è talamo grato la tolda a sciogliervi il cinto dell’onda ! - ».
Che detto in parole semplici potrebbe tradursi in questo modo:
<< Ah, se mai avessi sposato quell’altro pretendente. Ora sarei come la sua attuale moglie. Felice, una bella casa, dei figli, tutti insieme, e senza problemi. Perché mai scelsi invece Ulisse. Uomo che non mi fu mai accanto ? Uomo a cui unico letto gradito è il legno del ponte della nave per solcare le onde del mare >>.
Come negare questa verità; quello di Penelope è, in fondo, un legittimo rammarico che non lascia spazio all’amore.
C’è anzi dell’odio nei confronti di quell’uomo da cui si sente tradita. Si aspettava una vita normale come quella di tutte le donne normalmente sposate.
Ed invece proprio a lei è toccato questo destino inaspettato e crudele.
Mai si aspettava di essere abbandonata dall’uomo che aveva amato.
Abbandonata e non vedova.
Ed ora lo odia. Ed odia se stessa per aver fatto la scelta sbagliata.
E non sa se dare la colpa al Fato o ad Ulisse. Forse è colpa di entrambi. Sicuramente del suo uomo. Perché non torna ? Non è voluto tornare oppure non ha potuto ?
Ma cosa importa ormai. La realtà è che lei è ormai vecchia e dopo aver trascorso tutta una vita da sola, ora deve occuparsi soltanto delle sue piccole oche.
Ma in questo contesto, D’Annunzio, vuol mettere in evidenza, anche e soprattutto, le misere occupazioni terrene della consorte dell’eroe.
Lei si occupa di cose di poco conto, mentre al contrario Lui, l’eroe, sta svolgendo giustamente un compito importante.
Talmente importante che non lo compie per lui stesso, ma a nome e per conto dell’intera umanità. Deve scoprire nuovi mondi.
E’ quindi più che giusto, per D’Annunzio, sorridere delle stupide e semplici attività di Penelope, in confronto a quelle ben più grandi e nobili di Ulisse, che perciò non deve preoccuparsi delle inutili lamentele di una insignificante donna.
E’ con Omero invece che l’Amore trionfa in tutto il suo splendore e la sua magnificenza.
Ulisse dopo venti lunghi anni torna a casa, dalla sua moglie, dal suo figlio, nella sua Itaca.
Certo è trascorso tutta una vita. Ma l’Amore ha tenuto.
Lei è rimasta fedele. Il suo letto è incontaminato.
Lui non l’ha dimenticata.
Ora sono invecchiati, lei inizialmente stenta a riconoscerlo, ma di fronte alla prova inconfutabile del letto, di quel letto che soltanto Ulisse sapeva che non poteva essere spostato perché quel talamo affondavano le sue radici direttamente nel terreno della loro casa, Penelope irrompe in un pianto di gioia incommensurabile.
Finalmente l’attesa è stata ricompensata.
Il suo uomo, insieme al figlio, farà vendetta di tutti coloro che si sono approfittati della sua debolezza.
E potranno finalmente riprendere a condurre una vita serena, .. insieme, .. per sempre.
Val la pene riascoltare i dialoghi di quei momenti così belli e cruciali.
Dal 23° canto dell’Odissea:
E giubilante la vecchia balia di Ulisse salì alle stanze di sopra, ad avvertire la padrona Penelope che il caro marito era tornato; veloce muoveva le ginocchia, le si intoppavano i piedi.
E sul suo capo curva, a lei così si rivolse:
« Destati, su, Penelope, figlia mia, che tu veda coi tuoi occhi quello che tutti i giorni tu sogni.
Venne Ulisse, ed è giunto a casa, per quanto venuto tardi: ed i proci arroganti egli sterminò, che la casa gli guastavano, i beni, e gli maltrattavano il figlio ».
Ma di rimando a lei Penelope molto assennata:
« Balia mia, delirare ti fanno gli dei. Perché ti beffi di me con tali chiacchiere false, che sono così oppressa da pene ? E perfino dal sonno mi desti. Suvvia, discendi e ritorna laggiù nella sala ».
Ma di rimando a lei la Balia disse:
« Non mi prendo gioco di te, figliola mia cara: davvero venne Ulisse ed è giunto in casa, com’io ti racconto: è l’ospite, cui tutti quanti spregiavano lì nella sala».
La gioia allora invase Penelope, e balzando dal letto ella abbracciò la vecchietta e pianto le eruppe dai cigli, e rivolgendosi a lei pronunciava le alate parole:
«Su, cara balia, ti prego, raccontami sinceramente; s’egli davvero è giunto a casa e così m’asserisci, come ha potuto alzare la mano sui proci sfacciati egli, da solo ? Infatti essi stavano qui tutti insieme ».
E di rimando le disse la cara nutrice:
« Nulla nè vidi nè seppi, ma solo i gemiti udii dei moribondi. In un angolo delle solide stanze noi atterrite stavamo, finchè tuo figlio Telemaco mi chiamò, che suo padre di certo aveva mandato a chiamarmi. Scorsi Ulisse allora in mezzo agli esanimi corpi, ritto, ed intorno a lui, coprendo il duro terreno l’uno sull’altro giacevano, e avresti esultato, vedendo lui di sozzura e di sangue asperso, al par d’un leone. Or lui m’ha mandato a chiamarti. Seguimi dunque, che gli animi vostri si volgano insieme alla letizia, dopo che tanto avete sofferto ».
Ma la molto assennata Penelope asserì:
« Non è certo esatto codesto racconto che fai, ma qualche dio uccise i nobili proci per punirli dei loro stessi soprusi. Invece lontano dalla Grecia perdette Ulisse il ritorno e la vita ».
Ma di rimando le disse la cara nutrice : «Figlia mia, che dici. Tu asserire che mai potrebbe tornare il marito, ch’è nella casa, al suo focolare ? Tu sempre diffidi. Seguimi dunque, in pegno ti do la vita mia stessa: se t’inganno, ch’io muoia della più misera morte ».
Detto così discendevano dal piano di sopra, dubbiosa molto nel cuore, se il caro marito dovesse da lungi interrogare, o baciargli e stringergli il capo e le mani. Ma dopoché fu entrata, varcando la soglia di pietra, ella sedette alla luce del fuoco, rimpetto ad Ulisse, alla parete opposta. Addossato all’alta colonna egli sedeva, guardando in terra, in attesa, se qualche cosa, vedendolo, a lui la forte sua donna dicesse. Tacque a lungo, commossa nel cuore ed attonita: a volte sì, guardandolo in faccia lo ravvisava, ed a volte lo sconosceva, coperto com’era di miseri cenci.
Ma cruccioso Telemaco allor la chiamava e diceva:
«Mamma, che mamma sei, dall’insensibile cuore, dì perché stai lungi così, dal babbo ? Ed accanto non gli siedi, e per interrogarlo non una parola dici ? Nessuna donna avrebbe cuore di stare lungi così dallo sposo, che a lei dopo lungo patire, dopo vent’anni, tornasse nel caro paese dei padri. Ma il tuo cuore è sempre rigido più d’una roccia ».
Gli rispose allora Penelope:
«M’è turbato ed attonito, figlio, il cuore nel petto, interrogar non lo posso, né volgere a lui la parola, né fissarlo nel volto. Ma s’egli è Ulisse davvero che alla sua casa ritorna, allora di certo noi due mezzi migliori avremo per riconoscerci: segni certi difatti sappiamo noi due, che ignorano gli altri.
Disse, e sorrise Ulisse divino che molto sofferse, ed a Telemaco subito rivolse le alate parole:
«Lascia Telemaco, via, che la madre mi metta alla prova: presto e meglio si accorgerà del vero. Ora perché sono lordo e indosso miseri vesti, ella mi sprezza ed ancora non crede che sia proprio quello. Ma provvediamo che tutto riesca nel modo migliore » .
Una ancella così lavò Ulisse e l’unse coll’olio, indi gli fece vestire una tunica, un manto leggiadro, e se ne uscì dal bagno. Egli si pose di nuovo sul seggio da cui s’era alzato dirimpetto alla moglie, ed a lei così si rivolse:
«Non ti capisco: a te più che a tutte le deboli donne, rigido han fatto il cuore gli abitatori d’Olimpo; certo nessun altra donna starebbe tanto ostinatamente lontan dallo sposo, che a lei dopo lungo soffrire, dopo vent’anni, tornasse nel caro paese natio. Ma suvvia, preparami il letto, balia, che, s’anche solo, mi corichi: in petto un cuore di ferro ha costei ».
E disse a sua volta Penelope:
« Si, preparagli il solido letto, balia, ma fuori dalla ben costruita stanza ch’eresse egli stesso ».
Allora Ulisse subito asserì:
«Donna, molto m’affligge il cuore codesto che dici. Chi m’ha portato altrove il letto ? Ciò risulterebbe difficile anche ad un uomo abilissimo, a meno che, sopraggiunto un dio, non lo avesse agevolmente posato in altro sito. Nessuno dei mortali uomini, potrebbe smuoverlo. Infatti il ben lavorato mio letto è un mirabile segno, è fattura mia, non altrui. Nel cortile cresceva un tronco d’olivo ed intorno io gli tracciai la stanza. Dopo aver tagliato il tronco e piallatolo con accurata destrezza, su quello applicavo il levigato letto ornandolo di bei fregi d’oro, d’argento, d’avorio. Ecco ti mostro questo segno, ma ignoro se alcuno l’ha smosso dopo aver troncato alla base il ceppo d’olivo ».
Questo gli disse, ed a lei mancarono cuore e ginocchi, perché la convinsero i segni che Ulisse le diede, precisi.
(Vedi il filmato rievocativo).
Corse dritta a lui, proruppe in pianto ed al collo gli gettò le braccia, e baciandogli il capo esclamava:
«Non mi serbare rancore Ulisse. Gli dei ci hanno dato a compagno il dolore, essi cui troppo sembrò che godessimo insieme la nostra giovinezza ed insieme arrivassimo quindi alla soglia della vecchiaia. Ma non t’adirare, ma non mi sgridare, se non t’accolsi amorosa, così, non appena ti vidi, molti nutrono infatti propositi astuti e maligni. Ora però che m’hai detto del talamo nostro i palesi contrassegni l’animo mio si convince ».
Disse, ed in lui suscitò desiderio più vivo di pianto, e singhiozzava stringendo la casta e diletta sua donna.
La nutrice apprestò allora il letto con dei morbidi strati, alla luce di fiaccole ardenti. E dopo che i due andarono a letto e compirono il rito del talamo antico, di raccontarsi a vicenda si compiacevano; lei di quanto dovette patir nella sua casa, lui degli affanni e di quanto penò dolorando. Ascoltando godeva la donna, né le scese sonno sui cigli prima che lui tutto le avesse narrato.
Nel “Capitano Ulisse” di Alberto Savinio, invece, avviene sì l’incontro finale dei coniugi, ma stavolta meno dorato di quello omerico, quasi ridicolo e nello stesso tempo drammatico nella sua realtà.
Penelope era rimasta fedele al suo uomo, non era stata di nessun altro perché non aveva “voluto” che tra lei ed il suo amore si frapponesse alcuno.
Ma purtroppo qualcuno invece si intromise, ed essa a quest’evento non poteva ribellarsi.
Non poteva fare nulla contro questa subdola entità che silenziosamente si andava insinuando tra loro.
Era il Tempo.
Il tempo lentamente ma inesorabilmente trascorreva.
E dopo venti anni, quando finalmente poterono rivedersi, Ulisse si accorse che Penelope, la sua moglie, era cambiata dal modello onirico che inevitabilmente aveva conservato nella sua memoria.
Nei suoi sogni era rimasta sempre la bella e giovane donna che amava.
Ma ora era diventata vecchia, era la donna che non lo aveva riconosciuto, era un’altra.
Ulisse le dirà “ Tu non sei la mia Penelope! Tu l’hai uccisa e preso il suo posto! ”.
Questa è la drammatica realtà che si manifestò ai loro occhi.
La fedele Penelope non poté rimanere tale contro il Tempo.
Ed ora non erano più gli stessi.
Erano morti, .. entrambi, .. per ciascuno.
Anche in questo contesto possiamo seguire la vicenda dell’incontro rileggendo i dialoghi dell’autore nelle scene dell’atto terzo.
Il servo Eumeo annuncia ad Ulisse che attende nella sala dell’eccidio:
« Signore, la Regina è qui! ».
Ulisse lentissimamente leva lo sguardo. Poi, altrettanto lentamente, volge il capo, guarda.
Nell’istante medesimo, caccia un urlo spaventoso:
« No!!! ».
Traballa, come se la terra gli tremasse sotto i piedi:
« No!!! ».
Afferra il servo Eumeo per il braccio:
« Chi è quella donna ? ».
Eumeo: « E’ la regina, signore, è Penelope, la vostra consorte ».
Ulisse: « Va via!! .. Perché mi si inganna ? … Dov’è Penelope ? »
Con lo sguardo si gira intorno, come cercando una persona che non c’è.
Comincia a girare come una belva.
Ulisse: «Dov’è Penelope ?… Dov’è Penelope ?… La nascondono!… la tengono prigioniera! ».
Afferrato alla gola Eumeo dice:
« Tu! è opera tua questa! Parla! Confessa! Che hai fatto di Penelope ? ».
Penelope: « Vedete ? Non mi ero ingannata: costui è pazzo! ».
Poi l’ira di Ulisse si placa.
Ulisse: « La verità!… La verità!… ecco la verità!… Via!.. Via!… lasciatemi!… lasciatemi ripartire! ».
Telemaco : « Padre!.. padre fermatevi!… Dove andate!… fermatevi! ».
Penelope : « Costui è pazzo, non vedete ?.. Un epilettico, un forsennato! ».
Telemaco : « Madre che dite! ».
Penelope : « Se pur costui non è un simulatore!.. Voi tutti lo sapete. Dieci uomini, dieci vagabondi si sono presentati in questa casa, ognuno dei quali asseriva di essere Ulisse ».
Eumeo: « Ma li abbiamo smascherati subito regina ».
Penelope : « Anche costui lo smaschererò. Più audace degli altri, ha osato sconvolgere la mia casa, ha sparso il sangue dei miei ospiti. Scacciate questo uomo dalla mia casa! ».
Telemaco : « Che hai detto mamma! Ma non lo vedi dunque ?… non lo riconosci ? Guardalo!… guardalo!… guarda chi è!… Oh, papà! papà! ».
Penelope : « Scostati da quest’uomo! Costui non è tuo padre!… ULISSE E’ MORTO! ».
Telemaco : « Tale parola… mamma…. dalla tua bocca!… ».
Ulisse ormai afflitto:
« Telemaco tua madre ha detto bene: ULISSE E’ MORTO! Ulisse è esistito molti, molti anni addietro… Ricordo: era giovane. Forti le sue braccia, più forti le sue speranze… Un giorno, quell’uomo audace, fidente, temerario andò nella casa di Icaro e prese sua figlia in sposa… Ah quale gioia irruppe nel petto di Ulisse! In mezzo a questa casa sorgeva un ulivo antichissimo, tarchiato, muscoloso. Ulisse con le sue stesse mani stroncò i rami nodosi, sbozzò il largo tronco e sopra l’albero mutilato di nascosto edificò il suo talamo… e… ».
Ma mentre Ulisse parlava, Penelope cominciò a guardarlo con attenzione crescente, poi a tremare con violenza sempre maggiore, poi a fissarlo con occhi divoranti, in ultimo lanciò un grido:
« Ulisse! E’ vero dunque! Sei tu!… Sei tornato!!! »,
e si slancia, con le braccia aperte, verso Ulisse:
« O mio sposo! ».
Ulisse nel vedersi riconosciuto si scuote come destandosi da un sogno, ma… INDIETREGGIA, con le mani protese ARRESTA l’impeto di Penelope.
Ulisse: « Tu!… Sempre Tu ».
Penelope: « Ulisse ».
Ulisse: « Sempre Tu.. che piombi sul margine della mia felicità… che stronchi il mio destino… Via! .. via!… via! … Ti sei frapposta per non lasciarmi ritrovare Penelope! … la mia cara Penelope… Tu non sei Penelope! … No!.. no!.. Via!… Intrusa!… Usurpatrice!… Tu l’hai uccisa! .. Me l’hai strappata dal cervello ».
Penelope rivolgendosi al figlio:
« Telemaco digli chi sono! ».
Ulisse: « Non c’è più!… Non c’è più!.. Lei, l’unica, la sola… non c’è più! ».
Ulisse: « Penelope.. lei.. mi avrebbe riconosciuto per segni misteriosi, per indizi sottilissimi.. per gli occhi.... invece… ».
Penelope: « Ma Ulisse che hai ? ».
Ulisse: « Lasciatemi ora ho capito! ».
Penelope: « No!… Ulisse!… No! » tentando di abbracciarlo.
Ulisse respingendola:
« Lasciami!… Lasciatemi solo!… Andate via! ».
Acconsentendo al suo desiderio per farlo rinsavire, Ulisse rimasto da solo inizia a meditare sulla sua sorte:
« Ecco la fine! … Perché ti scoraggi, Ulisse ? perché pensi alla morte? Alzati e ringrazia il destino. Sospiravi la meta ? Eccola! … Solo che sei caduto in un leggero inganno: la casa che tu cercavi non è questa, come tutti credono e tu stesso credevi. La tua vera casa, il tuo solitario e splendido palazzo ha un nome e si chiama … Fine! Penelope non tornerà mai più… Te l’hanno uccisa… Assassini! … Assassini! Le speranze, voraci compagne, sono andate via, l’ultima si voltò a guardarti, ridendo. Ulisse sei salvo! Non aspetti più nulla, non desideri più nulla. Eccomi morte! mi metto nelle tue mani. Mi siedo, chiudo gli occhi, aspetto! ».
E la dea Minerva si rivolge ad Ulisse:
« Ulisse sei giunto al termine del tuo pellegrinaggio. Alzati in piedi: consumato il dolore più grande, comincia la tua più grande felicità. La nave è pronta. I tuoi compagni, impazienti di vederti, aspettano di levare a te e alla più grande navigazione, il loro formidabile urrah!
Và, Ulisse! Non guardarti indietro!… Parti! ».
Eumeo: «Ulisse è partito!!!… Ulisse è partito!!!…».
Telemaco : «Papà!… Papà!… ».
Penelope: « Ulisse! ».
Penelope: « … mio caro Ulisse … ».
Ed infine c’è una visione attuale di questo dramma, rivista dal Prof. Paolo Puppa attualmente docente alla Facoltà di lingue dell’Università di Venezia.
Nel suo libro “Penelope”, questa signora vive da sola, in riposo, in una villa al mare, mentre il marito, noto giornalista, è da sempre in giro per il mondo ad inseguire guerre.
In un suo lungo racconto confessionale rivolto ad un ipotetico interlocutore, spiega cosa è stata la sua vita.
Inizialmente triste, ma poi è subentrata l’abitudine.
Ed ora conduce quella vita solitaria in compagnia del figlio.
Una condizione che ha ormai imparato a vivere e ad accettare.
Ed anzi di fronte all’eventualità che si sta prospettando, di veder tornare il suo uomo a casa, viene improvvisamente presa dallo sconforto, dalla paura e dalla perplessità di dover essere costretta a cambiare le abitudini di vita acquisite.
Quindi un amore ormai assopito, inutile, quasi fastidioso, sicuramente .. tardo.
Ma più di ogni visione mi piace far mia quella della Dott.ssa pedagoga Marta Brancatisano che nel capitolo “Volersi” del suo libro “Fino alla mezzanotte di mai” esprime queste bei concetti.
<< Strumento indispensabile per essere felici in una vita di coppia è la Fortezza, necessaria a stringere l’amore e a conservarlo quando lo si è trovato.
Fortezza intesa come i muscoli interiori della volontà occorrenti a superare le difficoltà dell’amore.
Potrà sembrare poco romantico ma l’amore non è fatto solo di cuore, sentimento e passione, ma anche di forza e dei suoi sottotitoli: pazienza e coraggio.
E’ facile innamorarsi, il difficile è far vivere l’amore per sempre.
Viene presto il momento in cui l’altro diventa difficile da sopportare: molesto.
Se questa realtà viene vista da un punto di vista esclusivamente sentimentale e spontaneo, è ovvio concludere che l’amore per sempre non esiste.
Ma accettare questa conclusione significa concepire il rapporto d’amore come un patto di uso e consumo dell’altro, sottoposto a termini e a condizioni varie >>.
Significa quindi concepirlo da un punto di vista esclusivamente egoistico e non di realizzazione reciproca.
<< Come se fossero rapporti di uso, di compravendita, di affitto o prestito >>.
Se l’altro mi da ciò di cui ho bisogno e che mi aspetto allora va bene altrimenti non è più valido perché non rispetta i termini di un contratto mentale stabilito all’insaputa dell’altro.
<< Ma nonostante tutto d’amore si vive, ed è questa la caratteristica fondamentale dell’essere umano, che è orientato all’amore come l’ago della bussola al nord.
La vita è tutta una tensione verso questo richiamo misterioso ed al tempo stesso imperativo: trovare l’amore.
E se d’amore si vive, sforziamoci di amare ed essere amati sempre e a tutti i costi, per come siamo e nonostante i nostri limiti. D’altro canto il punto è proprio questo, perché ad essere ben voluti quando facciamo gli eroi o i primi della classe non c’è nemmeno tanto gusto; ma essere amati quando facciamo e siamo dei vermi … ah, questo sì che è qualcosa che fa smuovere il cosmo fin dalle sue viscere, qualcosa che provoca uno stupore capace di ricreare colui che riceve un tale amore!
Per amare così, il sentimento e la passione non bastano, serve dell’altro, occorre la fortezza.
Il sentimento e la passione sono i sublimi motori primi dell’amore, ma per loro natura non seguono una linea piatta di continuità, ed è giusto che sia così.
Essi sono di per sé eccessivi, straripanti, improvvisi; espressi graficamente appaiono come una serie di picchi, di vertici a cui corrispondono necessariamente punti di caduta vertiginosi.
Benché ogni amore necessiti, per essere tale, dei suoi momenti di vertice, questi non sono fatti per durare, prima o poi inevitabilmente si cade.
L’ideale sarebbe tenersi i vertici e attutire le cadute, come se ci fosse una rete di salvataggio nel momento in cui la passione ed il sentimento, per cause naturali, si affievoliscono.
Bene, questa ipotetica rete è la fortezza, ovvero, l’impegno della volontà guidata dalla ragione a mantenere vivo un rapporto che ha perduto la spinta del sentimento, e a mantenerlo a livelli accettabili, di buona qualità di vita >>
Lo stesso Shakespeare giunge alle stesse conclusioni quando Amleto lodando le qualità morali del suo amico Orazio (At.3, sc.2) dice: «…Perché tu sei sempre stato uno che, soffrendo tutto, niente soffre, e che accoglie quel che la sorte gli manda, avversità o favori, con la stessa riconoscenza. E beati coloro nei quali la passione e il giudizio sono ben mescolati! Essi non si riducono a essere la zampogna su cui la Fortuna possa premere i tasti che più le aggradano… ».
Ma torniamo alla nostra pedagoga, che continua:
<< La fortezza non ha il compito di far compiere salti clamorosi all’amore, non lo sbalza a livelli stratosferici, fatti che sono di competenza della passione e del sentimento, ma gli permette di mantenersi a livelli costanti di buona qualità, dando il tempo alla passione e al sentimento di ricaricarsi e riprendere la loro spinta assopita.
E’ la fortezza che ci fa sorridere quando siamo stanchi, che ci fa stare calmi quando vorremmo buttare tutto alle ortiche, che ci fa essere accoglienti quando vorremmo fuggire in cima ad una montagna. E’ lei che resiste agli assalti della paura e dello sconforto quando l’amore mostra le sue spine e ci rende attuabile ciò che ci si presenta come contrario alle nostre inclinazioni
Ma la fortezza ha bisogno della “volontà”, e questa per essere costruttiva deve essere mossa dalla ragione e non spinta dal sentimento o sbattuta dalla passione.
Una volontà che abbia i suoi obbiettivi chiari, indicati dalla conoscenza e vagliati dalla ragione, è messa in condizione di raggiungerli. E’ una volontà coerente, che non si disperde, che non si distrae e non vacilla di fronte agli ostacoli, perché “vede” così chiaro ciò che persegue che quasi ne gode come se già lo possedesse.
Quando la volontà è invece sospinta dal sentimento, “sente” il suo obiettivo, ma non lo vede, e quindi la volontà non può ricevere sostegno e aiuto da ciò che non ha la fermezza tra le sue note caratteriali.
Una volontà forte è invece intelligente, e ciò che risulta sgradito o penoso ai sensi ed al sentimento, riusciamo a farlo, proprio grazie alla volontà che segue gli impulsi della ragione piuttosto che quelli della sensibilità.
Impulsi che provengono dalla conoscenza e dalla memoria; la conoscenza dell’amore e la memoria di come eravamo all’inizio, di quando essere felici insieme e fare piacere all’altro era il frutto spontaneo del sentimento e della passione. E, in assenza di quest’ultimi, la ragione continua a motivare la volontà, a compiere gesti e scelte che tendono a produrre gli stessi effetti del sentimento.
Ma essere forti non significa essere duri o spietati. La forza dell’amore non è forza bruta: fa male, costa a chi la detiene, mentre risulta dolce e rassicurante per chi la subisce.
Non è un caso che nella lingua italiana amare si dice “volere bene”.
Un bene forte, intelligente, saggio, capace di trovare risposta ai perché del suo impegno senza vagare angosciato di fronte alle difficoltà dell’amore.
Frasi quali: « Perché proprio a me ? » , « Questo proprio non me lo aspettavo! » , « Questo poi è troppo! » , « Ho sopportato finora, adesso basta! » sono espressioni che non hanno senso per chi è in grado di ragionare e ricordare che l’amore che abbiamo scelto non ha limiti (inteso come spazio nel quale essere accettato), non offre assicurazioni sulla vita e sugli infortuni, dà tutto a patto di avere tutto >>.
Quindi concepire la relazione matrimoniale seguendo unicamente lo schema delle proprie necessità ed aspettative, significa averne una visione prettamente egoistica e limitata, che non può che portare alla fine del rapporto non appena questo esce dai binari che ciascuno si era prefisso.
<< Ma che tipo di ragione deve essere, quella chiamata a illuminare la volontà per farle sostenere l’amore ?
Non certo quella sottoposta alla fredda legge dei numeri e della pura e semplice convenienza razionale. E’ una ragione più umana e meno matematica, che non si isola dal cuore e dal sentimento, ma li chiama a collaborare, li rispetta senza lasciarsi sopraffare da essi.
Non è la dote dei potenti o dei letterati, è alla portata di tutti: è la cosiddetta ragione dei semplici, quelli che non si complicano l’esistenza e riescono a vivere con armonia senza dividersi in esseri, o tutta testa, o tutto cuore, o tutto sesso >>.
Sentimento e ragione, quindi, devono essere come due ali che battendo insieme consentono ad una coppia di innalzarsi e volare verso una convivenza serena.
In conclusione, la visione dell’amore della nostra scrittrice, possiamo riconoscere che concorda con quella omerica di Penelope e Ulisse.
L’Amore che non termina, qualunque cosa succeda; l’amore per sempre.
Aiutato dalla volontà e dalla fortezza della ragione sia di Penelope quanto di Ulisse, l’amore ha vinto tutte le avversità della vita e li ha fatti rincontrare.
E preferisco anch’io questa analisi; sia perchè lo stesso Dante arriva alla conclusione che il viaggio solitario intrapreso da Ulisse lontano dagli affetti familiari, per quanto potesse essere nobile, è un viaggio sbagliato destinato per sua stessa natura alla morte; e sia perché ritengo che crescere i figli è già un’avventura, il viaggiargli accanto in compagnia della propria “consorte” è già di per sé un itinerario mozzafiato che non lascia residui di curiosità.
Verona, 19 luglio 1999.
Cantelmo Giuseppe